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PRIMO TEMPO

 

Libro d'artista contenente un racconto breve di Luca Marchesini e tre incisioni di Togo

​

Edizione originale di 99 esemplari più 20 numeri romani

 

Edizioni dello Scarabeo, 1987 - Milano​

​

www.togopittore.com

 

PRIMO TEMPO

  

   A quasi trenta minuti dall'inizio la partita non

sembrava ancora volgere a favore né dell'una né

dell'altra squadra, e questo nonostante l'impegno di

entrambi i contendenti, incitati dalla rispettiva

tifoseria con grida e sventolar  di bandiere e grandi

striscioni colorati. Era uno di quei casi in cui il gioco

stenta ad assumere una fisionomia precisa. Da

quanto ero fermo più o meno a centro campo? Non

avrei saputo dirlo. Mi sembrava di essere stato

sempre lì, correndo avanti e indietro, zigzagando,

dribblando con eleganza, mentre, lontano, oltre gli

spalti, vedevo la città ruotare intorno a me. Dei

nostri passi, sentivo, non restava ormai che il puro

suono, un suono sordo che ora si dilatava rivelando

echi insospettati, elementi che si sormontavano in

aeree architetture di castelli di carte. Come appariva

lontana, la porta; non solo la porta avversaria ma la

mia, quella per difender la quale avrei in fondo

dovuto combattere, con il portiere mio compagno,

vestito di nero, fermo là fra i due pali come uno

strano ghirigoro.

 

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   Certamente tutto avrebbe ancora potuto cambiare,

noi prendere l'iniziativa oppure gli avversari e noi

allora cercare di neutralizzarne l'azione, prenderli in

contropiede spingendo a fondo, possibilmente

segnare. Bisognava almeno cercare di resistere fino al

secondo tempo. Dopo sarebbe stato diverso: freschi,

rinfrancati, si sarebbe partiti all'attacco. Qualche

sagoma nera e grigiastra si stagliava all'orizzonte: un

gasometro; due ciminiere; alcune gru, con il loro

movimento sempre uguale, avanti e indietro: estreme

propaggini della città in direzione del cielo. Ora lo

sapevo, non ci sarebbe mai stato un secondo tempo,

non ci sarebbe mai stata una fine della partita e

neppure un secondo tempo: si trattava tutt'al più di

convenzioni. Avanzando, indietreggiando e di nuovo

avanzando, con il pallone davanti ai miei piedi come

un sole caduto, notai che lo spazio si dilatava intorno

a me mentre lo percorrevo, in misura tanto più

sensibile quanto più mi spingevo in avanti verso la

porta avversaria o retrocedevo verso la mia, cosicché

la mia distanza da esse, pur talvolta decrescendo, lo

faceva però di una frazione via via sempre minore.

         

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Ora vedevo che mi sarebbe stato impossibile

spingermi oltre un dato limite, raggiungere l'altra

porta oppure tornare indietro. Anzi: cosi stando le 

cose, non aveva in fondo nemmeno più senso parlare

di una mia e di un'altrui metà campo, di una mia e
di un'altrui squadra. Cosa faceva, là in fondo, il 

portiere mio avversario, il cui volto non riuscivo 

neppur bene a distinguere, fermo là immobile, le 

mani sui ginocchi; in tutto simile all'altro, mio

ipotetico compagno di squadra, anche lui immobile e

il cui volto non riuscivo parimenti a distinguere?

C'era silenzio, tutt'attorno. Alzando gli occhi forse

per la prima volta, mi accorsi che non c'erano

nemmeno spettatori, che non c'erano mai stati

spettatori. Insegne e striscioni pendevano qua e là fra

gli spalti, irrigiditi, oscillando appena, di tanto in

tanto, pesantemente, nell'aria ferma. Giganteschi

cartelli, tutt'intorno al campo, reclamizzavano bibite

e creme abbronzanti come bocche spalancate a cui

fossero stati tolti i suoni, e in quest'assenza

rivelavano qualcosa di fin allora nascosto o

dissimulato, come le lettere di un alfabeto strano. E

d'improvviso mi accorsi che un urlo saliva dai

 

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cartelli, svettava nell'aria con le transenne e i pali

qua e là abbandonati senza un ordine, troppo acuto

per poter essere udito. Tentai di rivolgermi all'arbitro

ma egli non mi vide e mancò poco che non mi

passasse attraverso. Invece uno dei segnalinee fu lui a

richiamare la mia attenzione, facendomi cenno di

andargli a sedere vicino oltre il margine del campo.

Dava dei morsi ad un frutto che teneva in mano, una

melagrana o qualcos'altro (non riuscii a veder bene),

masticandone a lungo la polpa e sputandone i

noccioli davanti a sé sul terreno. Me ne offrì e io accettai.

   Adesso è notte. I giocatori sono scomparsi. Un

vento tiepido strascina di tanto in tanto i vessilli sugli

spalti. Anche i cartelli hanno cessato di gridare, le loro

bocche spalancate hanno espressioni preistoriche.

Il mio compagno giace sull'erba. Ha gli occhi chiusi:

dorme o finge di dormire; una voglia di melagrana o

d'altro gli spacca il viso. Sotto un cielo che s'inarca

sul mio capo, osservo le linee bianche, cercando di

far quadrare i miei calcoli. In ciò sono aiutato dai

semi che vado trovando qui tutt'intorno tra l'erba.

Non che siano una gran quantità, ma servendomi

 

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anche delle dita delle mani e dei piedi ne ho più che

a sufficienza. Il mio compagno forse è morto o forse

finge d'esser morto, il rosso triangolo della

bandierina s'increspa gonfiandosi di tanto in tanto

sul prato. Il suo rapporto con i numeri, seppur in un

certo senso anche molto stretto, è stato sempre

piuttosto estrinseco, lo so bene: anche di questo

dovrò tener conto nei miei calcoli. Per il resto non

ho da lamentarmi: l'aria è leggera e gradevole e a 

tenermi compagnia, oltre al mio pallone giallo, stelle

inconsuetamente limpide e vicine occhieggiano

tutt'intorno, mentre il terreno s'incurva sotto di me

fino ad assumere l'aspetto di una culla rovesciata.

                                         

 

 

 

 

 

 

 

 

                                       

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      testi teatrali - narrativa      
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